Salvatore Borsellino a Non è l’Arena: non è stata la mafia ad uccidere il giudice Paolo.

Salvatore Borsellino a Non è l'Arena: non è stata la mafia ad uccidere il giudice Paolo.
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Agnese Borsellino disse: “Questo è un paese di ricattati e di ricattatori che non avrà mai pace se non avrà verità“.

Questa è una storia inquietante non tanto per le azioni della criminalità organizzata quanto per il ruolo che sembra avere lo Stato in queste vicende.

Sono tanti i punti che parlano delle relazioni stato – mafia, vediamo quanto è stato riportato da Giletti nello speciale di “Non è l’Arena” del 5 novembre 2022.

Per la prima volta il mafioso palermitano pentito Gaspare Mutolo (oggi ha 82 anni) ha mostrato il suo volto in TV. Si è scoperto e si è fatto intervistare. Si pentì e cominciò a collaborare con Giovanni Falcone ed ancora oggi lo fa.

Ha parlato anche Salvatore Baiardo ed ha fatto una affermazione definita scioccante, ma non certo incredibile: «La trattativa Stato-mafia non si è mai fermata ed è probabile che in un mese o due si arrivi alla cattura di Matteo Messina Denaro».

Si è discusso anche della foto che ritrae il Capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo, mentre si allontana dal punto della strage con in mano la borsa del giudice paolo Borsellino.

Salvatore Borsellino a Non è l'Arena: non è stata la mafia ad uccidere il giudice Paolo.

Questo servitore dello Stato, è mai stato messo sotto torchio veramente? Lui sa perché ha preso la borsa e a chi l’ha consegnata? Uno Stato deve meritarsi la fiducia dei cittadini chiarendo questi punti e andando a fondo, estirpando questo dramma chiamato “cosa nostra”.

Un ex sostituto procuratore della repubblica ha detto che i mafiosi sono gli esecutori non i mandanti. La mafia sembrerebbe fare danni e uccidere perché lo Stato glielo permette.

Qualche anno fa Salvatore Borsellino scrisse la lettera che segue, inviata all’Ufficiale dei CC Giovanni Arcangioli.

Leggetela attentamente

«Signor Arcangioli, spero i suoi impegni all’accademia dei carabinieri e la soddisfazione per la decisione della Cassazione le lasceranno il tempo di leggere queste poche righe vergate di prima mattina da un siciliano cresciuto laico ma con una foto di due giudici sul comodino e con la Costituzione al posto della Bibbia. Vedo e rivedo quelle immagini, la vedo e rivedo con la borsa di un giudice appena morto allontanarsi dal luogo della strage di via D’Amelio. La vedo tranquillo, soddisfatto, vittorioso.

Senza il minimo turbamento per la catastrofe che la circonda. Lei non si è mai fatto processare per quella illegittima sottrazione e non ha mai dato una versione univoca e attendibile di quel gesto. Ha sempre dato varie e discordanti versioni in quanto “turbato dal vedere quei corpi”; sembra tutt’altro dalle immagini, glielo assicuro.
Hanno archiviato l’indagine a suo carico per furto aggravato dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, e ora hanno respinto il ricorso della procura di Caltanissetta: gli italiani non sapranno mai la verità, non sapranno mai se lei è innocente o se lei è autore del furto di quell’agenda su cui erano scritti appunti pericolosi come armi atomiche e se lo fece per favorire cosa nostra.

Voglio solo dirle che forse non sapremo mai la verità, ma che quelle immagini per noi significano molto, e vederla con quella borsa in mano per gli italiani è metà della torta. Già, non sappiamo per conto di chi e perché lei fece quel gesto inconsulto, ma lo fece, e noi abbiamo le prove. Nessuno potrà scagionarla di averci privato di una parte di verità che ci spetta come italiani e come siciliani. Fino a quando lei continuerà a tacere rimarrà colui che fino a prova contraria ha sottratto la borsa del giudice.

Perché? Lei ha il dovere morale di dire il perché di quelle oscure manovre quando il corpo del giudice Borsellino era ancora caldo e quando la Sicilia era sgomenta. Signor Arcangioli, io non so se la sua coscienza le lasci tregua, la nostra memoria di certo non lo farà mai. Parli, finché è in tempo, e non ci privi di un nostro diritto.

P.S.: il mistero dell’Agenda Rossa. Eccolo.

L’ufficiale venne ripreso, intorno alle 17.30 del 19 luglio, mentre si allontana velocemente dall’auto della vittima con in mano l’inseparabile valigetta di cuoio del giudice.
La borsa ricomparve nella macchina successivamente, circa un’ora dopo; venne sequestrata e repertata: dentro, però, l’agenda non c’era.
Cosa accadde tra le 17.30 e la redazione del verbale di sequestro dei reperti che non fa cenno al documento?

Il nodo è tutto qui. Arcangioli ha sempre sostenuto di non avere aperto l’agenda e di averla mostrata a Giuseppe Ayala, ex collega di Borsellino, nel ‘92 deputato, tra i primi ad accorrere in via D’Amelio. Ma la versione del militare non ha convinto i magistrati che inizialmente l’hanno indagato per false informazioni. Ayala ha negato di avere ricevuto la borsa dal capitano e ha sostenuto di averla vista nell’auto, di averne parlato con l’ufficiale e di averla consegnata a un altro carabiniere.

Di certo c’è che quando la borsa vuota fu ritrovata nella blindata di Borsellino presentava bruciature che prima non c’erano. Nel frattempo la macchina aveva preso fuoco: ciò confermerebbe che la valigia era stata tolta e poi rimessa dentro.
Inoltre, nelle immagini si vedeva Arcangioli allontanarsi velocemente dal luogo della strage con la borsa, in una direzione, che secondo gli inquirenti che, su sollecitazione del gip ne chiesero il rinvio a giudizio, non sarebbe giustificata né dalla presenza di soggetti istituzionali, né da motivi investigativi.

Ma la sentenza di proscioglimento, confermata dalla Cassazione, ha escluso il coinvolgimento dell’ufficiale».

Come è possibile? Troppe ombre sullo Stato che sembra impotente di fronte alla criminalità organizzata. E d’avvero impotente o fa solo finta di esserlo? In fondo, per essere eletti servono voti.

Nella stessa trasmissione poi, Mutolo parla anche dello stalliere di Arcore, Mangano. Dice chiaramente che nulla aveva a che fare con i cavalli e che era in quel luogo perché doveva testimoniare che quello era territorio dei palermitani.

Dovevamo rapire Berlusconi ma da Palermo telefonarono per dirci di rientrare in Sicilia. Pochi giorni dopo ad Arcore arrivò Mangano”, dice rispondendo alle domande di Giletti.

Il pentito racconta: “I nostri basisti di Milano avevano già studiato il piano. Sapevamo che ogni otto o nove giorni Berlusconi andava nei suoi uffici di Milano 2. Lo aspettavamo lì. Era già tutto pronto, le auto, il magazzino dove rinchiuderlo. Ma lui non arrivava. Pensammo che qualcuno lo avesse avvertito. Poi ci arrivò una telefonata da Palermo che ci ordinava di smontare tutto e rientrare in Sicilia. Pochi giorni dopo, nella villa di Berlusconi, ad Arcore, arrivò da Palermo Vittorio Mangano, assunto come stalliere”.

Rivelazioni sconvolgenti che stanno passando quasi inosservate.

“Pianto e stridor di denti”.

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