Più che una passione

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Una passione!

Pantaloncini e maglia di 2º o 3° mano o più, ero agli inizi e mi davano ciò che avanzava agli altri.

La bici o te la compravi o non correvi.

Potevo permettermi poco ma ero felice anche cosi, nessuno in famiglia aveva mai corso in bici e nemmeno ne ha mai avuto voglia.

Non capivano perché a me piacesse tanto, in realtà nemmeno io lo sapevo.

Sapevo solo che mentre guardavo le gare in tv rimanevo sveglio e concentrato mentre tutti gli altri, dopo avermi chiesto di cambiare canale 100 volte, si addormentavano.

A 12 anni mi presentai da solo al responsabile del Team più importante di Rovigo e provincia, il Velo Club Mantovani Esoform.

Gli chiesi di iscrivermi, mi guardavano con tanta compassione, uso questo termine anche se non è proprio il più corretto.

Dopo tanta insistenza e risatine demenziali mi rilasciarono quella tessera della FCI tanto attesa.

Cosa mancava? Una divisa per correre. Passione!

Lo feci presente ma dovetti attendere un bel po’. Quasi ogni giorno, con la mia bicicletta andavo in corso del Popolo dove lavorava il mio contatto.

Una di quelle volte trovai la mia divisa: una maglia di lana e un paio di pantaloncini evidentemente usati.

Non ero schizzinoso e anche se gli altri avevano abbigliamento molto più nuovo e di qualità superiore, ero felice per la mie conquiste: avevo tessera, divisa e una bici.

La prima volta che le indossai e feci un giro avevo un sorriso e una gioia talmente grandi che non cessarono nemmeno quando incontrai mio padre che mi disse:

Chi credi di essere diventato?

Non ero nessuno, non lo sono nemmeno oggi, ma lottavo da solo per realizzare un piccolo sogno e questo mi bastava.

In bici andavo già da un po’, con quella da cross, con quella da passeggio e poi con quella da corsa.

Con alcuni compagni di scuola si andava alla scoperta dei Colli Euganei e delle strade di campagna.

Volevo correre però, come dovevo fare? Dove erano le gare?

Il mio barbiere, Vincenzo Bellini, era un ciclista amatoriale e pensai bene di andare a pedalare con lui e il suo gruppo, queste domande le avrei poste a loro.

Scoprii che vi era un giornale del settore, non ricordo il nome, in cui vi erano date, luoghi e orari di tutte le competizioni divise per categorie.

Dovevo comprarlo!

Essendo senza famiglia al seguito, senza macchina potevo correre solo a poca distanza da casa.

Quella domenica la gara era a Roverdicrè, una frazione di Rovigo.

Uscii di casa con la mia divisa addosso, e andai alla partenza senza sapere nulla.

Ero impaurito ma convinto di correre.

Avevo 12 anni, categoria esordienti: più esordiente di così, non avevo mai corso in bici in vita mia e non conoscevo l’ambiente.

Consegnai la tessera e la quota di iscrizione, mi dissero di andare alla verifica dei rapporti e io li guardai stupito.

Verifica di che? Dove? Da chi?

Mi indicarono un punto della piazza dove c’erano due tizi che posizionavano le bici su un binario di legno e le facevano avanzare in retromarcia spingendole dal manubrio.

Andai e mi misi in fila e attesi il mio turno.

Rapporti verificati, tutto ok!

Mi tolsi la maglia di lana e feci, per la prima volta nella mia vita, quello che emoziona ogni ciclista: attaccai il numero di pettorale con 4 spille da balia.

Ero ufficialmente un corridore pensai: tessera, divisa, bici, pettorale conquistati.

Si avvicinava l’ora della partenza, mi misi in coda al gruppo schierato.

Mi posiziono nelle retrovie così osservo la situazione e cerco di imparare, pensai.

Pensai molto male!

Arrivò lo start e tutti partirono come frecce, riuscii a rimanere accordato sino alla prima curva, mi staccai e mi riaccodai prima della seconda curva, alla terza mi staccai e basta.

Se mi mettevo in prima fila la situazione sarebbe cambiata di poco o forse sarei riuscito a rimanere in gruppo?

La mia prima gara si concluse così, dopo circa 2 chilometri. Senza nessuno con cui gioire o con cui piangere.

Rientrai un po’ abbacchiato alla partenza, restituii il numero e tornai a casa.

Per i miei era come se fossi andato a fare un giretto da solo o con qualche amico, non capivano che avevo corso la mia prima gara.

Avevo fatto tutto da solo, nessun podio, un ritiro ma avevo corso e avevo fatto una nuova esperienza.

Oggi, che ho un po’ di esperienza in più, pensando agli allenamenti mirati, ai potenziometri, ai preparatori, all’alimentazione calibrata, al doping, ho motivo di credere che quel giorno ottenni un ottimo risultato.

Ne arrivarono altre, sempre vicino casa o quasi.

Partivo con la mia bici e facevo anche 20 chilometri ad andare ed altrettanti per tornare, come quella volta a Valiera vicino Adria.

Vi era tanta cattiveria in corsa, spintoni, tirate per la maglia, spallate e non solo. Genitori e allenatori che osannavano i loro scudieri. Quelle cose non hanno mai fatto parte della mia vita.

I più le chiamano furbizie o frutto di intelligenza, per me sono scorciatoie ingiuste.

Seguirono altri ritiri, gare concluse, mai un podio.

In sei anni, 2 da esordiente, 2 da allievo, 2 da juniores, non ho mai alzato le mani al cielo.

Certo mi sarebbe piaciuto, avrei voluto diventare un professionista, ma correvo e questo era già qualcosa.

Ogni giorno, ogni nuova gara covavo la speranza e il sogno del trionfo personale.

Arrivò l’epoca di fare sul serio, 18 anni compiuti.

La possibilità di passare alla categoria dilettanti era a portata di mano.

Così pensavo.

Mi lussai una rotula non so nemmeno come.

Lo capii presto. Le mie ginocchia non erano come quelle di tutti, le mie erano uniche ma non era una bella cosa.

Dopo l’ennesimo infortunio e la prima operazione arrivò il verdetto: “con queste ginocchia dica pure addio alla bicicletta”, fu un ortopedico a pronunciarle.

Con il tempo capii che non era bravo nemmeno nel suo lavoro ma lo ascoltai e mi fermai.

Se fossi diventato un campione, questa sarebbe la bella storia di uno che si è fatto da se.

Un racconto da leggere come quello dei campioni di un tempo.

Oggi invece non sono nessuno, forse sono un vero fallito per le regole di questa terra, ma ancora inseguo quel mondo.

Anche oggi faccio le mie piccole conquiste rimanendo costantemente agganciato al pianeta ciclismo.

Anche oggi sono semplicemente solo alla conquista del pianeta.

I miei traguardi li ho superati in solitaria, come facevano i Bartali, i Coppi e Pantani in fuga.

Qualche volta, nel mio intimo, le braccia le ho alzate.

Ero meccanico di me stesso, preparatore atletico di me stesso.

Mi sostituivo i nastri del manubrio, i tubolari, pulivo e ingrassavo il tutto come meglio potevo.

I meccanici c’erano ma soldi ne avevamo pochi e il coraggio di chiederne era pari a zero.

In quanto all’alimentazione mangiavo quello che passava il convento.

E le scarpe? Non ci crederete ma con lo stesso paio di scarpini da corsa feci 5 anni di gare. Dovevano, per forza di cose, adattarsi ai miei piedi.

La bici, all’inizio, era ben 2 misure più grande, ed ero io a dovermi adattare a lei.

Fine prima puntata….

Le foto qui sotto sono le uniche che ho di quegli anni di corsa.

Non c’erano i cellulari, non c’era quasi nessuno che fotografasse nelle categorie minori, figuriamoci il sottoscritto, solo e sconosciuto che arrivava in coda al gruppo.

Foto Valerio Malaspina, Yashica FX – 3

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