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Esclusivo – Al servizio dello STATO 1989 – 1990 🇮🇹

Esclusivo - Al servizio dello STATO 1989 - 1990 🇮🇹
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AL SERVIZIO DELLO STATO 1989 – 1990

flag of Italy Bandiera italiana

Avevo rinviato il servizio militare di leva di un anno, giusto per terminare gli studi con l’esame di maturità del 1 luglio 1989, la chiamate giunse in primavera.

Tornai a casa da scuola come tutte le mattine ma quel giorno fu diverso. Mi trovai una bella cartolina verde tutta per me, un viaggio premio con treno gratis, destinazione Taranto.

Avevo fatto domanda in Marina Militare ma non mi venne accolta, avevo tentato di entrare alla scuola sottufficiali dell’esercito (AUC), ma non venni preso, come potevo mai sperarlo? Avrei voluto entrare in Polizia ma non tentai nemmeno, le cose andavano in un certo modo pertanto decisi di lasciar fare al tempo.

Mi mandarono al mare, proprio in riva al mare grande di Taranto, difronte avevamo la base navale della Marina ma ero stato destinato all’Aeronautica Militare.

https://maps.app.goo.gl/cLywwE9caYfRK8s4A

Dovevo partire i primi di agosto del 1989, avrei potuto fare le mie vacanze post diploma tra il Veneto e la Campania. La mia famiglia aveva deciso di partire ad inizio agosto come tutti gli anni per andare a riposare a Controne, in provincia di Salerno.

Rimasi a casa con mio zio Antonio, li avrei raggiunti qualche giorno dopo, nel frattempo volevo trascorrere qualche giorno con la mia ragazza, ci eravamo messi insieme il tre aprile di quell’anno.

Qualche giorno prima di partire in treno mi ammalai. Mi venne una tonsillite acuta spaventosa, febbre a trentanove e tonsille gonfie come palloni. Lasciai partire mio zio poiché la famiglia della mia fidanzata mi accolse a casa loro. Trascorsi circa venti giorni tra punture di antibiotico, antiinfiammatori ecc. Non mangiavo, bevevo solo succhi di frutta e frullati, dimagrii tantissimo. Avevo appena iniziato a riprendermi quando giunse l’ora di partire per un viaggio sconosciuto, non avevo la più pallida idea di cosa mi stesse aspettando.

Caterina mi accompagnò in stazione la sera, viaggiai tutta la notte. Ero molto provato da quella tonsillite e pensai, quando arrivo mi riposerò un po’ prima di andare in caserma. Che ingenuo ero… anche ora. Appena il treno si fermò capii subito che vento tirava. Sentivo urla forti e severe chiamare tutti i neo soldatini. Nemmeno il tempo di lasciare la carrozza che mi misero in colonna con decine di altri ragazzi come me. Ci portarono ai bus e in pochi minuti eravamo già implotonati nel piazzale dell’Aeroporto Bologna di Taranto. Ma quale riposo, la giornata era appena iniziata. Fecero l’appello e ci divisero in compagnie, erano 4 in quella caserma. Ci condussero ognuno alla propria palazzina dove vi erano il Sergente e il caporale maggiore incaricati di terrorizzarci. Ci assegnarono la branda e ci spiegarono le regole della camerata: come fare il cubo, gli orari da rispettare, i turni di piantone e quant’altro. La debolezza del viaggio e la notte insonne si erano accumulate a quanto lasciatomi dalla tonsillite. Si tornò in piazzale ad attendere il nostro turno per pranzare tra “attenti” e “riposo”, sotto il sole cocente del fine agosto pugliese.

Arrivato il mio turno presi il vassoio e passai in rassegna il cibo a disposizione, non sembrava male ma il mio stomaco, proveniente da 20 giorni di quasi digiuno, faceva fatica a ricevere qualunque cosa.

La mensa era gestita da civili ed aveva abbastanza assortimento, nei giorni seguenti capii che non era poi tanto varia: ogni giorno le stesse identiche cose. Terminato il pranzo ci implotonarono ancora sotto il sole e ci misero in marcia verso la Fureria e successivamente alla consegna vestiario. Ci diedero un piccolo carrello in cui ci lanciavano le cose: 2 magliette, 2 divise da lavoro, 2 bustine (copricapo), 2 paia di scarpe, una divisa da libera uscita, una cintura, kit cucito e stemmi vari. Ultimo passaggio fu quello davanti al militare che doveva stampare il numero di matricola su ogni oggetto assegnatoci. Arrivò finalmente sera, ma non era ancora finita. Di nuovo implotonati davanti alla mensa ad aspettare il nostro turno per cenare. La cosa buona fu che era sera e faceva un po’ più fresco. Dopo tornammo in posizione di “riposo” davanti alla palazzina, pensavamo fosse ora di andare a dormire e invece no: era ora di lavare cessi, pavimenti, docce, e tutto il resto. Se l’ispezione andava male si sarebbe passata la notte in piedi. Non so se fummo bravi ma dopo un paio d’ore ci lasciarono finalmente andare in branda. Furono ventiquattro ore interminabili quelle trascorse dalla partenza da casa alla branda.

Il giorno dopo imparammo gli ordini sonori, il suono della tromba ci diceva di alzarsi, di andare a dormire, di andare a mangiare, di fare silenzio. Alle 0600 suonò la sveglia ma non c’era molto tempo per ascoltare il canto, alle 0615 dovevamo essere in piazzale sull’attenti ed esserci puliti, lavati, vestiti, cubo fatto, pronti per il controllo.

Fu veramente dura ma ci riuscimmo quasi tutti. Il secondo giorno stetti male, feci tutto quello che era nostro dovere fare, marciare sotto il sole, cantare l’inno nazionale a squarciagola all’alzabandiera, avere il primo contatto con le armi, passare in infermeria per le vaccinazioni effettuate da burbe studenti in medicina. Ci chiesero anche cosa volevamo fare dopo il CAR ma avevamo tutti il timore che ci avrebbero mandato dalla parte opposta. Era il servizio militare italiano, capii già quel giorno chi erano i raccomandati, i figli di papà e i veri protetti: gli imboscati. Nei giorni successivi vedevo gente saltare ogni servizio duro, entrare e uscire dalla caserma ogni fine settimana, fare i baristi allo spaccio, dormire quando gli altri sgobbavano.

Il terzo giorno crollai veramente, non mangiavo, mi ricoverarono nella piccola infermeria della base. Erano i primi di settembre, lo ricordo perché il tre si sposava Beatrice una delle sorelle della mia fidanzata, li immaginavo tutti a tavola a festeggiare e io ero in quel letto senza forze.

Vi rimasi circa tre giorni ma, invece di migliorare, mi indebolivo sempre più. Decisi di alzarmi, farmi forza e di tornare alla mia compagnia. Furono giorni veramente duri ma un po’ alla volta riuscii a mangiare. All’inizio mi sforzavo, mi venivano i conati, ma un po’ alla volta migliorai di molto: pesavo meno di sessanta chili.

Ricordo uno dei miei turni di servizio come piantone alle camerate, come potrei dimenticarlo? Ero l’unico residente al nord in quella stanza, vi erano due siciliani, un sardo, due romani intoccabili e qualche altro del sud. Volevano fare come gli pareva e mi arrabbiai e gli urlai: “finitela terroni”. Stettero zitti, finirono di fare guai ma non mi feci di certo molti amici.

Arrivò il giorno della prima libera uscita, era di sole poche ore e io ne approfittai per partecipare alla Santa Messa: avevo visto una Chiesa poco distante dalla Base. Uscii e conobbi i miei primi travestiti. Si accampavano appena fuori il portone, sembravano prostitute ma erano uomini. Andai in Chiesa e lo feci ogni sabato o domenica. Li avvenne la svolta: conobbi un gruppo di ragazzi che frequentavano quella parrocchia che mi avvicinarono e mi accolsero, primi tra tutti Rita Baccaro e Alessandro.

Il poco tempo libero lo passavo con loro, mi portavano in giro per la città, a casa con i loro familiari. Io e Rita diventammo amici, lei ha un anno più di me. I suoi genitori ancora oggi si ricordano di me e io di loro. Mi accolsero tutti con un senso di ospitalità unici. Ricordo benissimo quella sera che mi vennero a prendere in caserma in auto e si avviarono per strade a me sconosciute. Era buio, non vi era più asfalto sotto le ruote ma sabbia e intorno pineta. Erano brave persone ma qualche pensiero negativo mi assalì in quei momenti. Si fermarono davanti ad una casa non distante dal mare, era dei genitori di Rita. Quando entrammo davanti a me vi era una tavola imbandita con tutto il ben di Dio possibile immaginabile e anche inimmaginabile. Avevano preparato una cena ed una festa fantastica, mi dissero che era per me e io rimasi esterrefatto. Fui veramente colpito dal calore, dall’ospitalità, da come, quelle persone, mi dimostravano il loro amore.

Ancora oggi con Rita siamo grandi amici, anche le nostre famiglie sono in contatto.

Quelli di Taranto furono giorni impegnativi. Alla fine del primo vi fu il giorno del “giuramento”. Data la lontananza, nessun famigliare mi raggiunse. Quella mattina erano tutti più severi: dovevamo essere pronti sull’attenti nel piazzale dell’alza bandiera tutti tirati e bardati in perfetto ordine: ghette ai piedi, bustina in testa.

Una compagnia alla volta ci fecero marciare verso l’armeria preceduti dal suono dei tamburi. Ci consegnarono le armi, un Beretta AR-70 con calcio ripiegato e cinturone con 2 caricatori da 40 colpi, proseguimmo poi verso la postazione di partenza della parata.

Vi era un grande piazzale in riva al mare e una tribuma piena di autorità militari e di familiari. Si marciava a suon di “passo”, “cadenza” e rullo di tamburi sino a quando, tutti schierati fronte palco e spalle al mare, si giurò fedeltà alla Repubblica italiana. In realtà molti urlarono “l’ho duro” al posto di “lo giuro”, era goliardia propria dei militari di leva.

Da li a pochi giorni se ne andarono un po’ tutti dalla base, rimanemmo una trentina circa, più alcuni nuovi provenienti da altre caserme: eravamo i prescelti per il corso di formazione: Marconista addetto alle telecomunicazioni e telescriventi.

Un altro mese di corso presso l’Aeroporto Bologna di Taranto. Arrivarono le nuove “burbe” e noi, con un mese in più già ci sentivano “nonni” rispetto a loro.

I giorni passarono tra servizi in camerata, servizi di guardia, servizi di ronda in città e, la mattina, lezioni di teoria e pratica di comunicazioni militari, codice Nato, messaggi criptati ecc. Ci misero tutti in una palazzina più curata, furono giorni molto meno duri dei precedenti.

Ricordo il mio primo servizio di ronda in città: ci diedero la fascia da apporre al braccio, le ghette e, soprattutto, cinturone bianco con un bel manganello, anch’esso bianco.

Uscimmo di caserma in tre, due reclute e un sergente, e si andò in giro per la Taranto vecchia. Avete presente la polizia militare nei films americani? Quelli con elmetto e fascia con scritto MP? Più o meno la stessa cosa. Taranto era, forse anche oggi, una città dove la presenza di militari era tutt’altro che trascurabile e c’erano anche molte teste calde.

Il tempo libero lo passavo con gli amici della Parrocchia e con Rita, mi portavano a passeggio per la città, ai loro incontri, a casa loro molto spesso. Arrivò il giorno della mia partenza e, seppur felice di tornare verso casa, fui triste per dover lasciare quegli amici. Mi avevano organizzato la festa di addio ma non potei andarci, lo volevo tanto ma i compagni di corso me lo impedirono. Vennero però tutti a salutarmi alla stazione di Taranto, fu un momento particolarmente toccante.

Era fine settembre 1990, era notte quando le ruote d’acciaio incominciarono a muoversi per riportarmi a Padova, la mia nuova destinazione. All’epoca non c’erano i cellulari, ci scambiammo gli indirizzi. Io e Rita ci scrivemmo molto spesso, così anche con Mauro e Alessandro. Lasciai Taranto per giungere la mattina seguente a Padova all’aeroporto. Mi accolsero a ranghi ridotti, depositai il mio bagaglio e mi permisero di andare a casa, era domenica. Vidi la mia fidanzata per la prima volta dopo quarantatre giorni, fu un’emozione indescrivibile.

Ero sereno, ero vicino a casa ma fu gioia breve. Il lunedì mattina mi presentai in caserma e venni convocato dal capitano addetto alla truppa. Nel pomeriggio mi diedero la nuova destinazione, un luogo allora per me sconosciuto, Dobbiaco. Mi misero fuori dal cancello nel pomeriggio, fu un vero trauma. Non sapevo dove dovevo andare né come andarci e mi dovetti organizzare. Alcuni punti non li posso raccontare, meglio evitare, fatto sta che salii in treno alla volta di Bologna, la avrei dovuto prendere la coincidenza per Bolzano. I treni erano fermi e ci imbarcarono su dei bus sino a Verona, da li di nuovo in treno direzione Vipiteno. Alla stazione di Fortezza nuovo cambio: lascio il treno grande per salire su un due vagoni compresa locomotiva. Era un convoglio colore marrone cacca dove la prima classe si distingueva dalla seconda solo per il piccolo copri appoggia testa bianco. Quando il trenino “Lima” si mise in movimento e cominciò a salire in mezzo ai monti, mentre osservavo fuori dai finestrino, pensai una cosa sola: ”dova cavolo mi hanno mandato?”, non dissi cavolo.

Fu notte fonda quando arrivai in caserma, poco più di una palazzina bifamiliare alle porte del paese sulla strada che da Dobbiaco conduce a Cortina.

Al primo piano c’erano gli uffici e la cameretta del sottufficiale, un ragazzo di Terracina (Roma), noi dormivamo in tre nel sottotetto mansardato, senza finestre, a cui accedevamo da una botola sul pavimento, tramite una scaletta a scomparsa che si estendeva all’interno della sala telescriventi.

Non c’era molta aria e non era nemmeno comodo l’alloggio: eravamo truppa! (https://maps.app.goo.gl/GiBc8jb73KvURewn8)

Ci alternavamo in parte alle telescriventi, per ricevere ed inviare bollettini meteo e piani di volo, e in parte al centralino telefonico per il “Centro di sopravvivenza in montagna” situato poco distante da noi. In realtà era (è tuttora) un albergo piuttosto lussuoso:

“Villa Irma” (https://maps.app.goo.gl/fXW3zHwGqS2G7BWk6).

flag of United Kingdom bandiera inglese

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