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(1948 – 1996)
Biografia
Antonio Mastropietro, probabilmente uno dei maggiori artisti polesani del secolo scorso, nasce a Rovigo il 9 Novembre del 1948 da padre salernitano e madre leccese.
Queste tre città furono sempre al centro della sua vita artistica e personale, influenzandone notevolmente i risvolti e l’esito. Diplomatosi all’Istituto d’Arte “Dosso Dossi” di Ferrara nell’epoca della contestazione giovanile, il Mastropietro rivela fin da subito un indole contraria agli schemi e al consumismo che lo porta nei trent’anni successivi a vivere in totale sintonia con l’Arte.
Nel 1972 apre il suo Studio all’ultimo piano di un antico palazzo nel centro di Rovigo, dove dipinge, estraniandosi dai concetti di tempo e spazio comuni ai suoi concittadini. Poco dopo, al piano terra di quello stesso palazzo in via X Luglio, inaugura la Galleria d’Arte “L’incontro”.
Per vent’anni Antonio Mastropietro offre spazio espositivo ma anche speranza e possibilità di crescere a centinaia di artisti italiani, noncurante del ritorno economico ma in virtù di una sensibilità e amore per l’Arte estremamente rari. Numerosi pittori di chiara fama si sono alternati a giovani promesse e alle personali dello stesso Mastropietro, che ogni anno apriva il “suo mondo” anche alle Fiere internazionali d’Arte di Bologna e Padova.
Artista poliedrico e instancabile, Antonio Mastropietro, si cimentò con successo con la scultura, il disegno, la grafica e la pittura inondando di opere sia l’Italia che il Belgio.
Il suo stile originale lo rendeva unico e riconoscibile, anche se la numerosa sperimentazione lo portò a realizzare, talvolta, alcuni interessanti ritratti e paesaggi, specialmente in occasione dei suoi soggiorni a Controne, piccolo paese montano in provincia di Salerno, dover per parenti e amici era semplicemente “o Pittò”.
Il Mastropietro è molto vicino, con le sue principali opere, alla tematica esistenziale, proponendo figure vuote e personaggi anonimi di un mondo dominato dall’indifferenza, prossimo alla morte.
Un mondo inanimato dal fascino vibrante, abitato da oggetti familiari irriconoscibili, amalgamati da cromatismi caldi, avvolgenti, sensuali. Ombre e manichini immobili: scompare il soggetto ma continua l’aggregazione di suoni, emozioni che è l’io.
Il preludio inafferrabile del suo futuro e l’inquietudine che riflette l’eterna conflittualità tra l’inserimento in una moltitudine, con conseguente perdita di individualità, e il doversi porre all’esterno di uno schema con l’ovvia angosciosa solitudine, ha accompagnato il Mastropietro fino agli ultimi anni di vita.
“L’incontro”, unico baluardo d’arte del capoluogo veneto, chiuse nel totale disinteresse delle Amministrazioni locali. Il “Premio Città di Rovigo”, ingiustamente, non gli venne mai riconosciuto, perché Mastropietro, esule dalle logiche politiche, era artista capace ma scomodo.
“Mi sento un po’ solo – disse negli ultimi giorni – Rovigo mi ha chiuso le porte. Mi sarebbe piaciuto esporre le mie ultime opere in questa città ma gli spazi per noi artisti sono quasi inesistenti.
La gente ha il timore di avvicinarsi all’arte perché non la conosce, non gliene viene data l’opportunità. Si pensa solo a far politica non a creare cultura e questo è un male”. Il 2 Marzo 1996, improvvisamente, la scomparsa.
Mauro Malaspina
Escursioni in montagna – Monti Alburni (Salerno)
Il pranzo contronese
Ogni estate ci s’imbarcava in qualche maniera, verso sud. Negli anni i mezzi erano spesso cambiati. L’auto senza radio di papà, un furgoncino color panna che ci caricava tutti, qualche volta il treno.
Raggiungere Controne, un semisconosciuto paesino tra i Monti Alburni, nel salernitano, era in ogni caso un’avventura.
Per un periodo i miei non scesero più, così un anno io, lo zio Antonio e mia nonna salimmo su un interminabile intercity. Non era la prima volta per loro ma lo zio, professionista nell’arte dell’appisolamento, aveva già avuto cattive esperienze nei vagoni letto.
Il suo russare fragoroso, instancabile, denso d’apnee, aveva, difatti, seminato il panico tra gli sventurati compagni di cuccetta. In quest’occasione la nostra preferenza si rivolse, pertanto, verso un semplice posto prenotato.
Certo, lo zio Antonio, beato lui, dormiva ovunque e comunque. Controne era come tornare a casa. Tra quei monti era semplicemente “‘o pittò”. Dipingeva, mangiava e ronfava, quasi sempre nel raggio di una ventina di metri dal piccolo monolocale che avevamo ereditato dal nonno.
Ci capitava, ogni tanto, anche qualche invito a pranzo da parenti o amici. I pranzi contronesi iniziano presto, verso mezzogiorno-mezzogiorno e mezzo e durano almeno un paio d’ore. Si sfora solo in occasione di festività come San Donato, patrono del paese, con la “pizza dolce”, che giunge in tavola anche alle quattro del pomeriggio.
La pizza dolce è una torta enorme, alta almeno trenta centimetri, con strati alternati di pan di spagna, crema semplice e al cioccolato. Glassata. Ma andiamo con ordine. Normalmente, un pranzo festivo contronese è costituito da tre-quattro portate.
E’ la quantità di cibo che è industriale. Per realizzare l’antipasto è necessaria una strage di maiali e mozzarelle a pioggia. Due o tre etti di pasta ognuno, inondati di sugo e pecorino. Piccantissimi. E tanta, tantissima carne. In particolare quando hai un altro zio macellaio.
I pranzi contronesi sono il pasto unico della giornata, in controtendenza sui presunti cinque consigliati nelle diete moderne. A cena il contronese mangia poco.
Formaggio, un paio di mozzarelle di bufala, qualche fetta tagliata grossa di prosciutto, l’immancabile assaggio di ciambottola, una specie di peperonata che galleggia nell’olio. Delicata. Fino a vent’anni reggevo quest’alimentazione tranquillamente.
Non c’è da stupirsi se poi io fui costretto a continue diete e lo zio Antonio pagò pesantemente un affaticamento di tutto l’organismo, aggravato da un irrefrenabile passione per il fumo.
Mauro Malaspina (23 febbraio 2006)
O Pittò
…Spesso scendevamo (a Controne-SA)con mia nonna e mio zio Antonio, fratello di mia mamma morto molto giovane. Lui ci portava sempre con sé, eravamo i suoi unici nipoti. Faceva il pittore e aveva venti anni più di me.
Era il nostro aggancio con il mondo dei più grandi e colui che ci strappava dalla noia delle vacanze condotte dai miei in quel posto.I miei erano molto sedentari, arrivati li non si muovevano mai dal paese se non per andare una volta a Pompei, in pellegrinaggio, e una volta a Paestum al mare.
Io e Valerio (mio fratello più vecchio) grazie allo zio Antonio e ad un suo e anche nostro carissimo amico di laggiù, Marcello, giravamo sempre. Marcello chiamava mio zio Pittò (era un vero artista) e diceva sempre “che era nato a Lecce, viveva a Rovigo, e passava le vacanze a Controne”.
Antonio e Marcello erano un po’ cane e gatto, per il paese e per gli amici erano come Gianni e Pinotto, Cochi e Renato, due comici insomma. Una bella coppia che aveva il talento di mantenere alto il morale della gente tanto che i paesani aspettavano ogni anno che questa coppia si riunisse.
Eravamo sempre insieme io e Marcello, tanto che dormivo spesso a casa sua e soprattutto ci mangiavo. Si girava in macchina,si andava in campagna, in montagna al mare. Quando avevamo bisogno era sempre disponibile, se stavamo male si offriva per darci aiuto.
Insomma in quel paese eravamo proprio trattati bene.Mi ricordo una volta quando accompagnammo mio zio alla stazione, per far ritorno a casa (Antonio non aveva la patente e viaggiava molto in treno).
Mentre il convoglio cominciava a muoversi e mio zio salutava dal finestrino, Marcello gli urlò:”Va, va pittò va a fanculo pittò” sembrava una scena tratta dal film “Amici miei”, quanto ridere abbiamo fatto.
Ci piaceva molto stare con loro e con tutti gli altri: u maraschino, u condor, Mario la guardia, Nicola, Tonino, lo smazzato, u professore, la guardia, u guastatore e tutti gli altri.
26 Feb 2006 – scritto da: Eugenio Malaspina
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